In piena emergenza coronavirus rischia di passare quasi inosservato lo tsunami che sta travolgendo la magistratura italiana. Dalle carte dell’indagine di Perugia e, più in particolare, dalla memoria delle chat di Luca Palamara, già presidente di ANM, emergono dettagli inquietanti sulla deriva delle correnti presenti in magistratura. Non sono più, infatti, sintomo di pluralismo culturale e ideale ma strumenti con i quali fare carriera e guadagnare posizioni o farne perdere agli avversari con i quali si concorre, per esempio, allo stesso incarico che sia una Procura o un posto al Ministero della Giustizia. E tra le chat nelle quali si pianifica la promozione o la bocciatura dei colleghi, ecco che spuntano i messaggi più inquietanti: pur conscio della insostenibilità delle accuse mosse al Ministro dell’interno dell’epoca, in materia di gestione dei flussi migratori, Palamara difende la scelta dei colleghi siciliani perché: “Ha ragione ma va attaccato (il Ministro n.d.r.)”. A nulla possono valere le tardive e non spontanee scuse di Palamara al diretto interessato.
Con quale spirito i cittadini possono guardare alla magistratura tutta quando si ha la certezza che alcuni suoi esponenti (per fortuna non tutti) non resistono alla tentazione di ostacolare l’azione politica e governativa con l’azione giudiziaria? Hanno o no i cittadini il diritto di sperare di essere giudicati da magistrati che non si lasciano condizionare dalle convinzioni politiche o ideologiche? Non è un mistero che, grazie anche alla grancassa mediatica dei giornalisti oggi silenti ma di solito pronti a passare tutte le veline delle Procure, gli uffici del PM siano nelle condizioni di determinare la vita politica, economica e istituzionale della Nazione anche solo con l’iscrizione di un soggetto nel registro degli indagati, indipendentemente dall’esito processuale della vicenda. Ciò che emerge dalle chat pubblicate da alcuni (pochi) giornali è un quadro sconcertante nel quale le correnti esistono solo a presidio del carrierismo più sfrenato. I vertici di ANM sono decapitati per la seconda volta in un anno dagli stessi fatti portati alla ribalta dall’indagine di Perugia. Le logiche correntizie sono il sintomo più evidente di una crisi di sistema: come tutte le democrazie moderne, anche la nostra è fondata sul principio della separazione dei poteri. Ebbene, è necessario che tale principio torni ad essere rispettato, la magistratura non può fare politica nelle aule di giustizia né, tantomeno, nei tanti uffici ministeriali dove è dislocato quel piccolo ma potente esercito rappresentato dai magistrati fuori ruolo. Va fermato il meccanismo delle c.d. “porte girevoli”: chi vuole impegnarsi in politica deve lasciare la toga perché non basta rientrare in funzione semplicemente cambiando sede a garantire terzietà e imparzialità. Ormai indispensabile l’approvazione della legge sulla separazione delle carriere in magistratura, promossa dall’Unione delle Camere Penali Italiane e attualmente ferma alla prima commissione della Camera dei Deputati, della quale si deve pretendere l’accelerazione dell’iter legislativo. L’istituzione di due separati CSM sancirebbe l’indipendenza della magistratura giudicante da quella inquirente. E sarebbe auspicabile una riforma che vieti il fenomeno (un unicum tutto italiano) dei magistrati fuori ruolo, anche considerato il terremoto che sta investendo via Arenula dove le dimissioni a catena di alcuni magistrati chiamati a ruoli dirigenziali al Ministero della Giustizia, meriterebbero qualche spiegazione da parte del Ministro Bonafede che, probabilmente, impegnato com’era a salvare la sua poltrona, non si è neanche accorto di ciò che accade intorno a lui.